Abdellah Mechnoune
Giornalista residente in Italia
interessato alle questioni arabe
ai temi dell’immigrazione, all’Islam e ai diritti umani.
Mentre i discorsi politici in Italia si concentrano sulla domanda “Chi entra nel Paese?”, resta nell’ombra un interrogativo più profondo: “Chi lo lascia?”.
Questa è la grande contraddizione italiana: un Paese che accoglie i migranti in cerca di un futuro migliore, mentre i suoi stessi figli partono in silenzio, portando con sé sogni e frustrazioni.
Dietro i numeri, c’è la storia di una società che vive un complesso cambiamento demografico, economico e culturale. L’Italia non è più solo una meta di transito, ma è diventata anche un Paese di “transito inverso”, dal quale i giovani qualificati emigrano verso nazioni più stabili e attrattive.
L’emigrazione italiana contemporanea si distingue da quella del secolo scorso, guidata dalla povertà o dalle guerre. Oggi partono laureati, ingegneri, ricercatori, medici e creativi. Non perché non amino il loro Paese, ma perché non vi trovano spazio per realizzarsi.
Le cause di questa “fuga di cervelli” sono molteplici e interconnesse:
Un mercato del lavoro fragile che non valorizza le competenze né garantisce stabilità.
Una burocrazia soffocante che frena iniziativa e innovazione.
Stipendi non equi rispetto ad altri Paesi europei.
Alto costo della vita e pressione fiscale elevata.
Profondo divario tra un Nord prospero e un Sud marginalizzato e povero.
Non si tratta di emigrare per scelta, ma per dignità professionale. Molti non partono perché vogliono lasciare il Paese, ma perché non gli è permesso restare come attori attivi nella propria terra.
Mentre il governo italiano continua a varare leggi e accordi per regolare i flussi migratori provenienti da Africa e Asia, manca una strategia nazionale che si occupi degli italiani che partono.
Non è stata ancora costruita una politica reale che riallacci il rapporto tra l’Italia interna e l’Italia esterna — quei milioni di italiani che vivono in Europa, Nord America e Australia, e rappresentano un capitale umano enorme, ancora non valorizzato.
Non sono solo le persone a perdersi: con ogni ricercatore o giovane talento che parte, l’Italia perde capitale conoscitivo e scientifico. L’emigrazione interna lascia vuoti nel mercato del lavoro, altera l’equilibrio demografico e accentua la crisi dell’invecchiamento che affligge il Paese da anni.
Un giovane italiano residente a Berlino racconta:
“Non sono partito perché volevo andar via, ma perché il mio Paese non vedeva più il mio futuro.”
Questa frase sintetizza il dolore di un’intera generazione, convinta che il sogno italiano sia realizzabile solo oltre confine. Una generazione cresciuta con le promesse dello sviluppo, ma che si scontra con la disoccupazione mascherata, la scarsità di opportunità e la perdita di fiducia nelle istituzioni.
La contraddizione è che il dibattito pubblico in Italia resta ancorato alla questione dell’immigrazione in entrata, ignorando quella in uscita.
La politica discute “chi ha diritto a restare”, ma non domanda “perché l’italiano stesso non resta?”.
Così manca un confronto reale sul mercato del lavoro, sulla valorizzazione dei giovani talenti e sulla creazione di ambienti di lavoro flessibili che favoriscano innovazione e ricerca.
Affrontare il fenomeno non significa fermare le partenze, ma rendere possibile la scelta di restare.
Ciò richiede una visione strategica basata su:
Riforme strutturali nell’economia e nel mercato del lavoro per garantire salari equi e opportunità sostenibili.
Politiche per collegare gli emigrati al Paese d’origine tramite programmi di cooperazione e progetti comuni.
Incentivi professionali e fiscali per favorire il rientro volontario degli italiani all’estero.
Investimento sulle competenze dei migranti come ponti di collaborazione con le comunità in cui vivono, invece di considerarli una perdita definitiva.
Oggi l’Italia si trova davanti a uno specchio doppio: vede il mondo arrivare, ma esita a guardare i propri cittadini mentre lo lasciano.
L’emigrazione non è solo un movimento umano, ma uno specchio che riflette lo stato della nazione: se il Paese non offre ai suoi figli ciò che cercano altrove, il problema non è all’estero, ma all’interno.
Forse il primo passo verso la soluzione è riconoscere che chi lascia l’Italia non è un traditore, ma un testimone di ciò che non è stato ancora realizzato.
Solo allora l’Italia potrà iniziare il suo cammino di ritorno a se stessa, prima di pensare a chi entra o esce dai suoi confini.






English
Español
Deutsch
Français
العربية