Ramzi Lafrindi: la comicità come ponte tra culture, identità e futuro

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Intervistato da :Abdellah Mechnoune

 

 

 

In un’epoca in cui l’arte si fa specchio delle trasformazioni sociali, Ramzi Lafrindi rappresenta una delle voci più originali e autentiche della nuova generazione italo-marocchina. Nato e cresciuto in Italia da una famiglia di origine marocchina, Ramzi è comico, attore e autore. Con uno stile diretto, tagliente e personale, racconta la quotidianità di chi vive “tra due mondi”, portando in scena le contraddizioni culturali, l’identità, l’integrazione e le sfide di una società sempre più multiculturale.

Dai primi video comici alla recitazione in serie televisive di successo, fino ai riconoscimenti internazionali come miglior attore emergente, il suo percorso è segnato da coraggio, talento e autenticità. In questa intervista esclusiva, ci apre le porte del suo mondo, tra ironia e introspezione, denuncia sociale e desiderio di costruire ponti.

1. Come è nato il tuo bisogno di raccontare “senza filtri”?

Credo sia nato dal bisogno di respirare. Quando cresci in mezzo a tante aspettative, etichette, contraddizioni culturali, a un certo punto o esplodi… o racconti. E io ho scelto di raccontare. Senza filtri, perché i filtri li mettono già gli altri.

2. Che ruolo ha avuto la tua famiglia nel tuo percorso personale e artistico?

Un ruolo centrale. Mio padre mi ha insegnato la dignità del silenzio. Mia madre la potenza della voce. E io cerco di unire le due cose: parlare quando serve, e dire quello che spesso non si dice in famiglia.

3. Crescere tra più mondi culturali: peso o risorsa?

Tutti ti dicono che è una ricchezza, ma da piccolo è un bel casino. Sei troppo italiano per i marocchini, troppo marocchino per gli italiani. Poi capisci che questa spaccatura è un superpotere: vedi il mondo da due prospettive, e quando impari a usarle insieme diventa una lente comica e profonda.

4. Qual è oggi il tuo rapporto con le radici marocchine?

È un rapporto che ho dovuto ricostruire. C’è stato un momento in cui le ho rinnegate, poi ho capito che senza radici non cresci. Oggi sono fiero di quella parte di me. E cerco di onorarla anche quando la prendo in giro.

5. Quanto è importante per te la libertà di espressione nella comicità?

È tutto. La comicità è la mia arma e la mia terapia. Se tolgo la libertà, resta solo il rumore. Mi prendo il rischio di dire quello che penso, anche se scomodo. Perché il comico che non disturba… è un intrattenitore, non un artista.

6. Ti capita mai di autocensurarti o di temere fraintendimenti?

Mi capita di chiedermi: “Lo capiranno?” Ma poi mi rispondo: “Se lo senti vero, dillo.” Certo, non voglio ferire. Ma preferisco sbagliare per onestà che azzeccarla per paura.

7. Quanto c’è di autobiografico nei tuoi monologhi?

Tantissimo. Non sempre letteralmente, ma emotivamente sì. Prendo la mia vita, la smonto, la esagero, la ridicolizzo. Ma la base è sempre vera. È il mio modo per esorcizzare il caos.

8. La comicità può essere un ponte tra generazioni e culture?

Assolutamente sì. Quando fai ridere un padre e il figlio allo stesso tempo, hai costruito un ponte. E sopra quel ponte ci puoi far passare domande, identità, dubbi. E magari qualche verità.

9. Com’è stato il passaggio alla TV e al cinema?

Strano. Passi dal palco, dove tutto è vivo, al set, dove tutto è spezzettato. Ma mi ha affascinato. È un altro modo di raccontare. Più silenzioso, ma con grande potenza.

10. Quale lato di te ti ha sorpreso nei ruoli drammatici?

La mia fragilità. In scena faccio il forte, lo spavaldo. Ma davanti alla macchina da presa, senza risate, ti restano solo le emozioni vere. E lì ho incontrato un Ramzi più nudo. Più umano.

11. Cosa hanno significato per te i premi ricevuti?

Sono stati uno specchio. Non tanto per dire “sei bravo”, ma per vedere che il mio lavoro parlava anche agli altri. Mi hanno dato fiducia. E anche un bel po’ di pressione (ironica).

12. Hai contatti con la comunità marocchina in Italia?

Sì, quando posso. Non sono mai stato “il rappresentante ufficiale”, ma sento un legame forte. Alcuni mi scrivono, altri mi fermano. Mi fa piacere se vedono in me un fratello, non un simbolo.

13. Ricevi spesso messaggi da giovani figli di migranti?

Sì, spesso. E sono i messaggi che mi commuovono di più. Perché mi rivedo in loro. Mi scrivono: “Grazie, mi hai fatto sentire meno solo.” E io rispondo: “Anche tu a me.”

14. Cosa ti colpisce nei loro racconti?

La fatica di tenere tutto insieme: le aspettative della famiglia, il giudizio della società, il bisogno di essere sé stessi. È una danza complicata. Eppure resistono. E inventano nuovi modi di esistere.

15. Come vedi oggi i giovani di seconda generazione in Italia?

Come equilibristi. Stanno costruendo una nuova identità, ma senza rete di protezione. Lo Stato li ignora, i media li stereotipano, eppure loro creano, studiano, lottano. Meritano più ascolto, non solo attenzione occasionale.

16. Hai vissuto episodi di razzismo?

Sì. Espliciti e sottili. Dal “torna al tuo Paese” al “sei bravo per essere marocchino.” All’inizio ti feriscono. Poi impari a rispondere. A volte con ironia. A volte con rabbia. Ma sempre con dignità.

17. Cosa significa per te “integrazione reale”?

Significa essere parte, non ospite. Essere ascoltati, rappresentati, valorizzati. Oggi spesso ci chiedono di integrarci… in silenzio. Io dico: integrazione è dialogo. È contaminazione, non adattamento passivo.

18. Cosa diresti a chi si sente “né di qua né di là”?

Che non è un difetto, è una ricchezza. Sei un ponte vivente. Una possibilità. Usa quella confusione per creare qualcosa di nuovo. Il tuo sguardo ibrido è il tuo potere.

19. Quanto ti influenza la cultura italiana?

Tantissimo.. E’ l’ironia quotidiana, quella delle strade, dei bar… è una scuola continua.

20. E la cultura marocchina?

È nel ritmo, nei silenzi, nei non detti. Nei proverbi che mi ripeteva mio padre. In quella spiritualità che non ha bisogno di palco. A volte la inserisco nei testi, a volte ci costruisco sopra un intero monologo.

21. Hai mai pensato a un progetto che unisca esplicitamente Italia e Marocco?

Sì. Ci sto lavorando. Vorrei creare uno spettacolo bilingue, dove i due mondi si parlano. Magari anche con musica dal vivo. Perché la fusione è il futuro. E anche una bella sfida.

22. Che opinione hai su moschee e associazioni marocchine in Italia?

Sono importanti, ma a volte troppo chiuse. Dovrebbero dialogare di più con i giovani e con la società italiana. Non solo per pregare, ma per pensare insieme il futuro.

23. Ti sembrano realtà attive per i giovani?

Non sempre. Spesso i giovani non si sentono rappresentati. Serve un cambiamento di linguaggio, di approccio. Meno giudizio, più ascolto. Le nuove generazioni hanno molto da dire.

24. Possono avere un ruolo culturale oltre che religioso?

Assolutamente sì. Anzi, devono. La cultura unisce. Se una moschea organizza un evento artistico, apre uno spazio. E in quello spazio possiamo incontrarci.

25. Come vedi i rapporti tra Italia e Marocco?

Sono storicamente legati, ma ancora troppo concentrati su economia e migrazione. Manca il lato umano, creativo, profondo. Serve più scambio culturale. Più progetti condivisi.

26. C’è abbastanza scambio artistico tra i due Paesi?

No. Ma c’è tanto potenziale. I giovani artisti marocchini e italiani hanno voglia di dialogo. Bisogna solo creare i canali. Teatri, festival, residenze… tutto quello che può generare contaminazione.

27. Ti piacerebbe portare la tua comicità in Marocco?

Sì, ma con rispetto. Non voglio esportare “lo stile europeo”. Voglio trovare un linguaggio che parli anche a loro. Magari partire dai temi comuni: famiglia, religione, identità. Lì ci si incontra.

28. Parlaci del tuo spettacolo attuale. Cosa vuoi trasmettere?

Voglio raccontare la complessità con leggerezza. Parlare di famiglia, radici, paura, rabbia… e farci ridere sopra. Perché ridere insieme è già un atto politico. È dire: “Ci capiamo.”

29. Il nuovo progetto che unisce teatro e satira sociale: puoi anticiparci qualcosa?

Sarà uno spettacolo ibrido: tante risate, monologo, consigli e terapia perché chi si sente solo e non capito.
Una sorta di viaggio nella mente di un giovane “né di qua né di là” che si perde tra le voci dei suoi genitori, dei media e delle sue paure. E cerca di uscirne… ridendo.

30. Qual è il tuo sogno artistico più grande?

Riuscire a creare uno spazio mio, artistico e culturale, dove far crescere nuovi talenti. Un laboratorio permanente di comicità e identità. Dove chi si sente “fuori posto”… trovi finalmente il suo posto.

31. Che messaggio vuoi lanciare ai giovani nati in Italia da famiglie migranti?

Siete abbastanza. Così come siete. Non dovete scegliere tra due mondi: potete crearne uno nuovo. La vostra voce serve. Anzi: manca.

32. Quale sarà la prossima storia da raccontare?

Quella che ancora non abbiamo il coraggio di dire. Forse una storia d’amore. O una di rabbia. Ma sempre una storia vera. E magari, se possibile… che faccia anche ridere.

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