Intervistata da: Abdellah Mechnoune
In un mondo dove la comunicazione è spesso ridotta a superficialità e slogan, emergono voci capaci di restituire dignità e profondità alla parola. Tra queste, spicca quella della Dott.ssa Sofia Abad, sociolinguista, interprete giurata, imprenditrice culturale, attivista e speaker multilingue. Nata a Napoli da genitori marocchini, cresciuta tra l’Italia, il Marocco e la Francia, è oggi un punto di riferimento per chi crede che il linguaggio sia uno strumento di libertà, inclusione e costruzione dell’identità.
A capo del progetto Talk With Me e del podcast Parole e Potere, Sofia si batte per una comunicazione autentica, consapevole e libera da pregiudizi. In questa intervista, esploriamo il suo percorso unico, la sua visione della parola come strumento sociale, e il suo impegno per la comunità marocchina e migrante in Italia e in Europa.
1. Sofia, ci racconti come ha preso forma il tuo legame con il linguaggio e la comunicazione interculturale?
Fin da piccola, cresciuta tra lingue e culture, ho percepito il linguaggio come un ponte, più che come un confine. Studiando sociolinguistica, ho scoperto che la lingua non è solo uno strumento di comunicazione, ma un luogo identitario e politico, una scienza “faro” capace di illuminare approcci sociali e umani spesso oscuri. La comunicazione interculturale è diventata per me non solo un interesse, ma una missione: comprendere l’altro attraverso le sue parole è il primo passo verso una società inclusiva e sempre più plurale.

2. Quale episodio della tua vita ti ha fatto capire che le parole possono davvero avere un potere trasformativo?
Durante i miei primi anni di studi, ricordo un periodo in cui i media parlavano spesso di Islam e terrorismo, con una narrazione che tendeva a sovrapporre Islam e violenza. Si faceva fatica perfino a distinguere tra fede e provenienza etnica. In quel periodo fui spesso invitata in studi televisivi per discutere di questi temi, ed è lì che iniziai a capire il funzionamento dei media. Notai come il linguaggio e certe terminologie venissero strumentalizzati per costruire un’immagine distorta. È stato in quel momento che ho compreso quanto le parole possano modellare la realtà e, allo stesso tempo, quanto siano modellabili. Da lì è iniziato il mio percorso di studio e specializzazione in sociolinguistica. Avevo chiaro che serviva uno spazio in cui le parole non venissero più manipolate. La storia di ogni persona va raccontata con verità, senza distorsioni. Questo è stato il punto di partenza per la mia ricerca e per il mio impegno: fare in modo che la comunicazione sia un ponte, non uno strumento di esclusione. Nel 2016 è nato Talk With Me!
3. Hai vissuto e lavorato in vari Paesi. In che modo queste esperienze internazionali hanno arricchito la tua identità personale e professionale?
Ogni Paese mi ha insegnato un modo diverso di dire “io” e “noi”. Aver vissuto tra Mediterraneo e Nord Europa mi ha resa fluida, capace di adattarmi e, al tempo stesso, di affermare la mia complessità identitaria. A livello professionale, ho sviluppato un ascolto più attento e una maggiore capacità di mediazione.
4. Nel tuo lavoro come interprete giurata ti trovi spesso di fronte a situazioni umanamente complesse. Come riesci a mantenere l’equilibrio tra empatia e professionalità?
Credo che la chiave sia aver capito che l’ascolto è parte integrante della comunicazione. L’esperienza nelle udienze giudiziarie è parte attiva della mia ricerca sociolinguistica. Ma è un equilibrio delicato. L’empatia non deve mai oscurare l’accuratezza, ma mi guida nel creare uno spazio sicuro per chi parla. Ricordo sempre che il mio ruolo è dare voce, chiarire, non sostituirmi all’altro.
5. Come è nata l’idea del progetto Talk With Me? Qual è il suo obiettivo principale?
Talk With Me nasce nel 2016 dal bisogno di ascoltare e raccontare la complessità del presente con autenticità. L’obiettivo è creare uno spazio in cui le parole delle persone comuni diventino protagoniste, per favorire un confronto reale, quotidiano, umano.
6. “Parole e Potere” è un titolo molto forte per un podcast. Qual è il messaggio centrale che vuoi trasmettere?
Che ogni parola ha un peso. Parole e Potere: il podcast del Talk With Me nasce nel 2020 per esplorare come il linguaggio possa costruire inclusione o esclusione, visibilità o invisibilità. Voglio dare voce a chi nei media mainstream non viene ascoltato e stimolare una riflessione sulla responsabilità comunicativa.

7. Hai recentemente presentato un tuo libro in prestigiose istituzioni italiane. Di cosa parla e perché è importante oggi?
Manifesto della società contemporanea: Comportamenti, Linguaggi, Diritti Umani e Intelligenza Artificiale è un saggio scritto insieme a una sociologa e attivista. Analizza i cambiamenti nei comportamenti, nel linguaggio e nei diritti umani nell’era digitale. Il mio contributo si concentra sul potere delle parole nei contesti digitali, in particolare nel sexting e nel revenge porn. Temi complessi, oscuri ma reali. Oggi, più che mai, serve educazione linguistica e consapevolezza critica per affrontare il presente. Bisogna educare genitori, docenti e tutori a decodificare questi linguaggi per proteggere le nuove generazioni. Prevenire è meglio che curare!
8. In un’epoca in cui il linguaggio si sta semplificando sempre di più, cosa si può fare per educare i giovani all’uso consapevole delle parole?
Bisogna partire dalla scuola, ma anche dai social: servono modelli e strumenti critici. È importante comprendere che scegliere una parola significa scegliere una visione del mondo. La semplificazione non deve diventare banalizzazione, ma può diventare un mezzo potente di divulgazione efficace.

9. Che messaggio vuoi dare ai giovani marocchini nati in Italia sull’importanza della lingua araba?
La lingua araba è una radice che non va dimenticata. Non è solo tradizione, ma anche risorsa culturale e professionale. Mantenere il bilinguismo significa affermare che si può essere pienamente italiani senza rinunciare alla propria identità. È anche uno strumento per comprendere meglio la nostra fede: poter leggere il Corano direttamente, senza intermediari, rende tutto più chiaro.
10. Perché, secondo te, il Marocco non ha ancora creato vere scuole di lingua araba e cultura marocchina, come ha fatto la Turchia?
Forse perché manca ancora una visione strategica sul ruolo delle seconde generazioni. Le scuole di lingua dovrebbero essere luoghi di appartenenza e dialogo, non solo di istruzione. È tempo che il Marocco investa nel capitale umano all’estero con progetti continui e radicati. Ma sono fiduciosa: il Paese dei Leoni dell’Atlas sta già facendo grandi passi avanti, e questo ci rende orgogliosi.
11. Che messaggio vuoi lanciare al governo Meloni sul tema della cittadinanza per i figli di immigrati?
Che è essenziale parlarne. La cittadinanza non cambia le persone, ma le libera da inutili stereotipi. Negarla significa dire a milioni di ragazzi: “Non appartenete”. Riconoscere la cittadinanza non è una concessione, ma un atto di giustizia e responsabilità democratica. I diritti non si regalano, si riconoscono. È su questo principio che si fonda una società realmente inclusiva.

12. Come vedi oggi la relazione culturale tra Italia e Marocco?
Ci sono belle iniziative, ma serve più reciprocità e visione. I legami culturali vanno nutriti con politiche condivise, programmi educativi e ascolto delle nuove generazioni. Ma ripeto: sono fiduciosa. I cambiamenti sono visibili, e i risultati non tarderanno ad arrivare.
13. Che ruolo hanno oggi le nuove generazioni marocchine in Italia?
Sono agenti di cambiamento, risorse per entrambi i Paesi. Costruiscono ponti, riscrivono narrazioni, rompono silenzi. Devono andare oltre l’inclusione formale e partecipare attivamente alla vita pubblica. Il linguaggio è lo strumento per affermare una nuova storia.
14. Che opinione hai del lavoro delle associazioni marocchine in Italia, soprattutto quelle dedicate a donne e bambini?
Molte lavorano con grande dedizione. Ma è importante che siano sostenute e non lasciate sole. Donne e bambini meritano spazi protetti e progetti a lungo termine.
15. Che ne pensi del Consiglio della Comunità Marocchina all’Estero?
Ha avuto un ruolo importante. Ma oggi serve un rinnovamento che metta davvero al centro le seconde generazioni. Servono rappresentanti giovani, radicati nei territori, capaci di dialogo concreto. Le nuove generazioni portano sulle spalle un carico enorme: sarebbe bello se questo fardello venisse alleggerito anche dalle istituzioni.
16. Con la creazione della Fondazione Mohammed VI per i Marocchini del Mondo, quali sono le tue aspettative?
È un’iniziativa meravigliosa. Mi piacerebbe, un giorno, poter contribuire anche solo con il mio piccolo bagaglio. Credo sarà un luogo di ascolto autentico e innovazione. Bisogna investire nei giovani, nelle donne e nella cultura, anche attraverso il linguaggio come motore d’identità. Sono sicura che il dialogo con l’Italia e le realtà locali sarà sempre più diretto.

17. Come valuti l’attività consolare marocchina in Italia?
La mia esperienza recente, soprattutto con il Consolato di Milano, è stata positiva: hanno valorizzato il mio lavoro. Tuttavia, credo serva una riforma dell’accoglienza e maggiore attenzione alle competenze presenti nei territori.
18. Le associazioni islamiche e le moschee in Italia rispondono davvero ai bisogni spirituali e sociali dei giovani musulmani?
Alcune sì, fanno un lavoro importante. Ma il vero problema è la frammentazione. Ognuno sembra voler gestire la “propria fetta” dimenticando che l’intera torta è stata preparata da una sola comunità. Servono imam che parlino italiano, spazi di culto aperti alla cultura e al dialogo. L’Islam è uno: dobbiamo costruire una ummah unita, aperta e consapevole.
19. Esistono ancora forme di violenza psicologica o sociale verso le donne musulmane nelle comunità islamiche italiane?
Non si può generalizzare, ma in alcune realtà persiste una cultura del silenzio. Non ha a che fare con la fede, ma con tradizioni radicate. Servono educazione al linguaggio, empowerment e alleanze con le istituzioni. Le donne devono potersi esprimere liberamente, senza sentirsi giudicate.
20. Sei nata a Napoli. Che esperienza hai avuto con il popolo italiano? Lo ritieni un popolo razzista?
Il popolo italiano è spesso più accogliente delle sue istituzioni. Napoli, in particolare, ti fa sentire subito parte di una famiglia. In Italia esiste un razzismo strutturale, ma anche tanta umanità, calore e voglia di ascoltare. Sta a noi continuare a raccontare l’Italia che accoglie. Ricordiamoci che l’Italia è sempre stata un Paese di migrazione.
21. Marocchina e italiana: preferisci la cucina marocchina o quella italiana?
Non posso scegliere! La cucina è una lingua d’amore. Amo il couscous che sa di famiglia e la parmigiana che sa di casa. Sono entrambe parte di me. Il segreto? Mangiare tutto… con equilibrio!
22. Un messaggio finale alla comunità marocchina in Italia, in particolare ai giovani?
Non abbiate paura della vostra complessità. Le vostre radici sono una forza, non un limite. Costruite il vostro futuro con orgoglio e consapevolezza: questa società ha bisogno della vostra voce, della vostra lingua, della vostra cultura. Siate sempre ciò che sentite di essere.






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