Pellegrinaggio, Jihad e Alba spirituale

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Brahim Baya

 

 

Negli scorsi giorni Dio l’Altissimo mi ha benedetto con la Sua immensa accoglienza nella Sua nobile Casa e mi ha permesso di compiere i riti del hajj, il pellegrinaggio, quinto pilastro della pratica dell’Islam. Il Hajj è un viaggio straordinario che non coinvolge soltanto il corpo, ma tocca profondamente lo spirito. È un cammino fisico e spirituale verso Dio, un jihad, sforzo, per purificarsi e rinnovare la propria fede e rinascere spiritualmente.

In questo articolo e nei due seguenti, a Dio piacendo, voglio condividere con tutti, musulmani e non, alcune riflessioni spirituali ed etiche in merito a questo incredibile viaggio. Nel presente testo mi concentro specificatamente sul valore spirituale di tale viaggio, nell’articolo seguente parlerò del suo insegnamento in merito ai valori etici di unità e giustizia e infine nel terzo avanzerò alcune note di critica in merito alla feroce avanzata del materialismo e del consumismo nei luoghi sacri dell’Islam.

Inizio con la benedizione di Dio citando i versetti divini che ci introducono l’importanza del rito del pellegrinaggio nella Via dell’Islam (2:197-203):
“Il Pellegrinaggio è nei mesi noti. Chi intende compiere il Pellegrinaggio in quei mesi, si astenga da ogni oscenità, trasgressione e disputa durante il Pellegrinaggio. Qualsiasi bene farete, Dio lo conosce. Fate provviste, ma la migliore delle provviste è l’amore reverenziale di Dio. E abbiate riverenza di Me, o voi che siete dotati di intelletto! Non è peccato per voi cercare un favore da parte del vostro Signore (commercio, ecc.). Poi, quando lascerete Arafat, ricordate Dio presso il Sacro Monumento. E ricordateLo come vi ha guidato, anche se prima di ciò eravate smarriti. Poi uscite da dove uscite le persone e chiedete il perdono di Dio. In verità, Dio è Perdonatore, Misericordioso. Quando avrete completato i vostri riti, ricordate Dio come ricordate i vostri padri, o con un ricordo ancora maggiore.”
Apprendiamo da questi versi che il ricordo di Dio è sia l’obiettivo del pellegrinaggio che la provvista necessaria per il viaggio. Cinque volte viene ripetuto il comando di ricordare Dio e di chiedere la Sua prossimità e il Suo perdono.

Il pellegrinaggio rappresenta una forma alta di jihad. La signora A’isha, moglie del Profeta, pace su entrambe, gli chiese: “O Messaggero di Dio! Sembra che il jihad sia l’opera migliore, non dovremmo fare jihad con te?” Disse: “No, il miglior jihad per voi è un pellegrinaggio accettato (Hajj mabrur).”
Compiere il pellegrinaggio è un jihad, uno sforzo, in quanto mette alla prova la capacità del credente di controllare i suoi istinti e i suoi desideri, al massimo della sopportazione fisica delle fatiche del viaggio e al massimo della difficoltà psicologica per l’estraneità rispetto al proprio paese e la grande folla di persone con cui si convive in stanza alla Mecca, nelle tende a Mina, durante il tawaf (circoambulazione) alla sacra moschea o con cui si sosta sulla piana di Arafat.
L’Imam Abdessalam Yassine, parlando dell’affluente del Hajj nel suo libro “Il Metodo profetico” scrive: “L’anima si agita quando viene privata del suo comfort, del suo cibo, del suo letto, della sua auto… Il pellegrinaggio è quindi una scuola di pazienza, un programma educativo completo, un’estrazione dell’uomo dalle sue abitudini, dal suo egoismo, dal suo comfort verso la conformità alla Via divina nei movimenti, nelle parole e nei pensieri, verso l’umiltà e il buon comportamento con tutti e la tolleranza.”

Questa necessità di tolleranza e autocontrollo l’ho provata sulla mia pelle, e si è rivelata fondamentale per salvaguardare il mio pellegrinaggio, anche quanto si subiscono dei piccoli “torti” personali, come la spinta ricevuta durante tawaf o la coda saltata per salire sul pullman, o le parole poco cortesi di un poliziotto,.. È una transizione e un cambiamento nelle abitudini che estrae la persona dal terreno della pigrizia e del comfort. Queste difficoltà del viaggio e l’allontanamento dalle comodità quotidiane il pellegrino è invitato a trasformarle in un’opportunità per mettere alla prova e rafforzare la propria capacità di resistenza e pazienza. È un momento in cui il credente può veramente liberarsi dalle distrazioni mondane e concentrarsi completamente sulla sua relazione con Dio.
A questo proposito qualcuno potrebbe chiedersi perché dobbiamo affrontare le fatiche del pellegrinaggio per andare da Dio? Perché questo viaggio estenuante, se Dio è con noi ovunque, ed è più vicino a noi della nostra stessa vena giugulare? A queste domande legittime risponde in maniera profonda l’autore egiziano Mustafa Mahmud, nel suo libro “La strada verso la Ka’ba”:
“Dio è sempre vicino a noi, più vicino del sangue nelle nostre vene, ma spesso siamo distratti da preoccupazioni, passioni e desideri che creano barriere tra noi e Lui. Le nostre menti costruiscono muri di arroganza e il nostro orgoglio ci rende miopi e ciechi, incapaci di vedere oltre noi stessi. Il pellegrinaggio, affrontando difficoltà e sacrifici, ci aiuta a liberarsi da queste distrazioni, a svuotare il cuore e a risvegliare i sensi alla realtà della vicinanza di Dio. Da qui deriva la parola ‘Arafat’ (conoscenza). Dopo un viaggio di migliaia di miglia, il cuore si risveglia alla ‘conoscenza’. Si ‘conosce’ il proprio Signore e scopre la Sua vicinanza, e si ‘conosce’ sé stessi e scopre la propria distanza.”
Il pellegrinaggio è un momento di grande unità tra gli esseri umani, in cui le differenze di nazionalità, lingua e stato sociale si annullano, lasciando spazio a un’esperienza collettiva di fede e devozione. I pellegrini, indossando l’abito dell’ihram (della santità), si presentano davanti a Dio spogli di qualsiasi segno di distinzione mondana, simboleggiando così l’uguaglianza e l’umiltà di tutti gli esseri umani davanti al loro Creatore. L’abito dell’ihram richiama alla mente il sudario, l’abito che viene fatto indossare a colui che ha terminato i suoi giorni in questa vita e si appresta ad incontrare il Suo Signore per rendere conto del suo soggiorno in questa vita. Anche altri riti del pellegrinaggio richiamano le immagini della Resurrezione e del Giorno del Giudizio, come la sosta sulla piana di Arafat, che rappresenta il momento focale di tutto il pellegrinaggio. “Il pellegrinaggio è ‘Arafa” disse il Messaggero di Dio, pace su di lui.

Due milioni di pellegrini vestiti con un vestito unico, hanno sostato in posto unico, con il cuore rivolto verso un Dio unico. La sosta a ‘Arafa è stata certamente anche per me il momento più profondo e intenso di questo hajj, in particolare gli istanti precedenti il tramonto, in cui tutti eravamo diretti verso la qibla, la nobile Mecca, su cui tramontava il sole. Davanti a noi milioni di persone che parlano direttamente con Dio senza intermediari, ognuno con la propria lingua, si inginocchiano sulla terra all’aperto dove non ci sono nicchie di preghiera, né minareti, né cupole, né pulpiti, né tappeti, né soffitti dorati, né pareti di marmo e alabastro. Non c’è niente, solo il cielo aperto, i cuori si aprono, si denudano, piangono… tutti piangiamo. In quel momento di incontro con se stessi e con Dio in cui le parole sembrano banali, la lingua non riesce a esprimere ciò che il cuore prova, le frasi sembrano mute, non rimangono che le lacrime, lacrime di gioia, di conversione, di purificazione e di rinascita spirituale. È un’alba spirituale conosciuta solo da chi l’ha provata.
Disse il Messaggero di Dio, pace su di lui: “Chi compie il pellegrinaggio alla Casa di Dio e non commette oscenità o peccati, ritornerà (senza peccati) come il giorno in cui sua madre lo ha partorito.”


La Mecca, 19 giugno 2024 corrispondente a 13 dhul-hijja 1445

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