Pr. Younes Alaoui Mdaghri
Cronaca di una rottura annunciata
Che la presenza romana in Nordafrica abbia conosciuto una disfatta tanto brusca e una scomparsa così rapida è motivo di profonda lamentazione per lo storico Albertini e per molti altri storici europei. Rimangono colpiti da incomprensione davanti a questo fenomeno: come è potuto accadere un crollo del genere, proprio quando il processo di romanizzazione sembrava così avanzato, e quando moltitudini di amazigh si erano sinceramente convertite al cristianesimo — soprattutto nel movimento donatista, fondato da un loro correligionario, Donato, che ne fu il testimone più vibrante?
Per autori come Julien, e per altri storici, la risposta risiede nella natura stessa della dominazione coloniale imperiale che segnò la politica di Roma (e poi di Bisanzio) in Nordafrica. Essi denunciano un’amministrazione che ha sempre considerato il Nordafrica come semplice riserva di grano e di olio, spingendo all’estremo la marginalizzazione e il razzismo verso le popolazioni autoctone. Queste ultime, schiacciate dal peso delle tasse e dalla brutalità di un potere dispotico, subivano un’ingiustizia multiforme: religiosa, politica ed economica.
La resistenza iniziale delle popolazioni nordafricane ai conquistatori musulmani del VII secolo non fu altro che la continuazione della loro secolare opposizione a ogni invasore. Il ribaltamento fu però radicale: una volta convinte della sincerità dell’Islam e del trattamento giusto dei nuovi venuti, si convertirono in massa, voltando per sempre le spalle al cristianesimo, all’eredità romana e ai culti pagani.
Questa sequenza storica alimenta ancora oggi una persistente nostalgia negli storici occidentali. Il loro rimpianto è duplice: da un lato, che Roma, per la sua ingiustizia, abbia perso le colonie; dall’altro, che gli amazigh, per la loro impazienza, abbiano mancato l’occasione di raggiungere, sotto la tutela di Roma e Bisanzio, un alto grado di civiltà.
“Oh, quanto la notte presente assomiglia a quella di ieri!”
Lo specchio implacabile
La tragedia che oggi colpisce Gaza è la conseguenza diretta delle azioni della Nuova Roma, incarnata da Washington e dai suoi alleati occidentali.
Ieri, Roma si richiamava al cristianesimo, ma ne rinnegava lo spirito di giustizia, compassione ed uguaglianza per schiacciare i popoli del Nordafrica — popoli la cui fede cristiana non poté salvarli dalla sua furia.
Oggi, lo specchio è implacabile. La Nuova Roma si ammanta dei valori di democrazia, diritti umani e diritto internazionale, ma contribuisce all’annientamento di Gaza con il ferro e con la fame, con la complicità della quasi totalità dei governi occidentali.
E nulla sembra difendere i gazawi: né la loro semplice umanità, né la loro fede in quel diritto internazionale che la Nuova Roma pretende di venerare, e che pure riconosce il diritto della Palestina ad esistere e rifiuta un’occupazione imposta da quello stesso Occidente.
La Nuova Roma ha fatto a pezzi la propria parola. A Gaza ha calpestato i suoi ideali con brutalità inaudita. Come stupirsi, allora, della furia che scatena, e della condanna unanime che si riversa su di lei e sul suo esecutore in Medio Oriente?
La conflagrazione globale
La rivolta dei popoli
Un tempo, i popoli nordafricani si erano sollevati, da soli, contro la Roma antica e la sua egemonia, rifiutando tanto l’impero quanto la sua fede — con grande disappunto, ci ricordano i cronisti occidentali, della posterità.
Oggi invece, la collera che monta contro la Nuova Roma e il suo strumento non è più soltanto quella del popolo di Gaza. È il grido della Terra intera. Ed è anche il giudizio del Cielo.
Coloro che oggi gridano la loro rabbia contro la Nuova Roma sono decine di milioni, che si riversano su tutta la superficie del pianeta.
Le grida strazianti delle madri di Gaza, affamate e disperate, trafiggono il cuore delle donne del mondo intero; ed esse si alzano, la loro collera esplode, e ripudiano la Nuova Roma e il suo esecutore.
I lamenti dei bambini che muoiono di fame a Gaza martellano la coscienza di ogni abitante della Terra; ed essi si alzano, la loro furia esplode, e ripudiano la Nuova Roma.
Le immagini d’orrore dei corpi di bambini, anziani e donne fatti a pezzi nelle strade di Gaza colpiscono giovani e vecchi, incollati ai loro schermi. La loro ragione vacilla, la loro rivolta monta, e si riversano a milioni nelle strade del mondo, gridando:
“NO! No all’annientamento di Gaza! Basta con questa follia! Basta con questa barbarie! Basta con l’ipocrisia e i due pesi e due misure, o Nuova Roma! Smettete di rinnegare l’umanità! Smettete di distruggere tutto: leggi, tradizioni e morale!”
Il grido delle coscienze
Nel frattempo, intellettuali e personalità di spicco dell’Occidente guardano in faccia il mattatoio a cielo aperto che è diventata Gaza. Tirano la sirena d’allarme e gridano:
“Roma! Occidente! Dirigenti! Smettete di legittimare il genocidio! State facendo saltare in aria la nostra stessa civiltà! State abbattendo l’opera dei nostri padri! State distruggendo quel patto di civiltà che è l’eredità dei nostri saggi e dei nostri geni!”
Dove ci state trascinando? Verso l’ossario dell’umanità? Verso il baratro in cui affonderà l’Occidente?
È questo il grido che ha lanciato il filosofo Edgar Morin in Francia. È questo il grido che ha urlato il cantante Bob Vylan al festival di Glastonbury, unendosi alla folla per condannare il massacro. È l’ammissione dell’orrore fatta dallo storico Lee Mordechai, che ha osato chiamare le cose col loro nome: genocidio. Sono le voci delle organizzazioni e delle istituzioni che hanno tuonato con tutta la loro forza.
L’impostura del potere
E, fatto ancora più sorprendente, oggi sono re e capi di governo occidentali a gridare alla vergogna e al disonore: il re del Belgio, i primi ministri di Spagna, Irlanda e Gran Bretagna, e persino il cancelliere tedesco.
Perfino il leader della Nuova Roma, all’inizio di questo mese, ha finito col confessare che quanto avviene a Gaza è una “catastrofe e una vergogna”.
Ma il colmo dell’assurdità è stato il seguito: egli ha dichiarato “di non sapere dove tutto questo condurrà a Gaza”! Come se non sapesse! Come se non avesse alcun potere! Come se tutti loro fossero impotenti davanti a questo olocausto genocidario!
Sono loro che hanno volutamente ignorato la prima scintilla, cullandosi nell’illusione che si sarebbe spenta da sé. Invece la fiamma è cresciuta, inesorabile. La palla di neve, trasformata in palla di fuoco, ha incendiato il mondo, da Gaza all’intero pianeta.
Invano risuonano le grida del “Duca egiziano” davanti al fuoco che ormai lambisce la sua porta, come pure i lamenti dei duchi vicini. Per non parlare dei Paesi del Sud, ormai divenuti una vera polveriera.
La bancarotta morale
Sia chiaro: tutti questi potenti del mondo sanno benissimo come porre fine all’olocausto di Gaza e neutralizzare il suo agente. Il potere ce l’hanno. Ciò che manca è la volontà.
Hanno ceduto a pressioni troppo forti? O forse non avevano mai immaginato che il caos potesse raggiungere una tale ampiezza, costringendoli ora a prendere una decisione dal prezzo proibitivo, persino fatale?
Ma il costo più alto è quello che molti analisti e pensatori occidentali avevano già predetto — Emmanuel Todd in testa: il crollo di una civiltà comincia sempre da una bancarotta spirituale e morale.
L’esplosione di Gaza ha fatto traboccare tutte le piaghe della civiltà contemporanea, questa Nuova Roma adagiata sul suo trono, mettendo a nudo una bancarotta spirituale e morale spaventosa.
Le calamità rivelate a Gaza potrebbero essere il nostro “coup d’éventail” del 1827 o il nostro “attentato di Sarajevo” — o forse qualcosa di infinitamente più grave. Perché non si tratta più di una guerra qualsiasi, ma di un crollo di civiltà: un terremoto che già incrina le fondamenta del mondo. Gaza, da sola, potrebbe bastare a rendere questo crollo palese.
È l’avvertimento lanciato da molti pensatori: non da pessimisti, ma da sentinelle lucide davanti alla catastrofe.
La promessa e la ferita
Osiamo una nota di ottimismo, seguendo l’intuizione di Arnold Toynbee.
Il grande intreccio di culture che caratterizza la nostra epoca potrebbe rappresentare il freno salutare al declino dell’Occidente: non più un crollo brutale, ma una metamorfosi lenta.
Questa è una fragile luce di speranza, una possibilità che l’Occidente deve saper cogliere.
Nel cuore stesso della sua civiltà pulsano vene che vengono da altrove: dall’Islam, dall’Asia, dall’Africa, dall’India… Questi apporti sono la linfa che può rigenerarla, ridarle vigore, giovinezza e respiro vitale. Sono quel surplus d’anima e quella energia creatrice che soli possono scongiurare lo spettro della bancarotta morale e spirituale.
E se noi, musulmani, presenti a decine di milioni in Occidente, vi abbiamo stabilito la nostra dimora fino a diventarne cittadini, è per stima verso le sue virtù essenziali:
senso dell’ordine,
rigore,
spirito razionale,
aspirazione all’uguaglianza,
rifiuto dell’arbitrio.
Lungi dall’esserci estranee, queste virtù ci attraggono e ci accomunano.
E questa ammirazione non è affatto nuova: affonda le sue radici nel VII secolo, con ʿAmr Ibn al-ʿĀṣ, Compagno del Profeta. In fonti autentiche come il Sahih Muslim e il Tarikh di al-Bukhari, egli commentò una tradizione profetica secondo cui, alla fine dei tempi, i “Romani” sarebbero stati il popolo più numeroso. Lungi dal manifestare paura o disprezzo, ne diede un’interpretazione politica di straordinaria modernità:
“Se è così, è perché possiedono quattro virtù:
una resistenza notevole davanti alle prove,
una capacità rapida di rialzarsi dopo i disastri,
un coraggio rinnovato dopo la sconfitta,
e una particolare cura per i poveri, gli orfani e i deboli.
A ciò si aggiunge una quinta qualità, nobile e preziosa:
essi sono il miglior baluardo contro la tirannia dei loro sovrani.”
Virtù autentiche che oggi occorre riaccendere, per tracciare — secondo Toynbee — una via di salvezza possibile per la civiltà occidentale: una via fondata sul meticciato e sulla cooperazione fra civiltà.
È anche un’occasione per rimarginare le ferite aperte dall’“strumento” della Nuova Roma in Medio Oriente: quelle che si sono manifestate con brutalità oscena nel massacro e nella fame di Gaza.
Lo “strumento” — ossia Israele — è e resterà una macchina senz’anima. Roma, invece, possiede un cuore e una ragione.
Questa è la promessa di Dio nella Sua Rivelazione.
Ed è questa promessa che alimenta la mia speranza e mi spinge a credere in un futuro riparato.
La voce di Gaza
Quanto al popolo di Gaza, rivolgendosi ai suoi fratelli arabi e musulmani, ha pieno diritto di fare sue le parole del poeta Ṭarafa ibn al-ʿAbd, che accusò la sua tribù di viltà e ingratitudine:
“I miei mi hanno tradito,
senza collera né vergogna,
sotto l’infamia che li ha ricoperti tutta intera.
Ad ogni amico che credevo sincero,
che Dio strappi il sorriso dal suo volto!
Tutti più furbi della volpe in caccia…
Ahimè, come la notte di oggi assomiglia a quella di ieri!
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