Takoua Ben Mohamed: “Non sono (solo) il velo che indosso”

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*Di Alessia Arcolaci

 

Nel suo libro “«Il mio migliore amico è fascista», Takoua Ben Mohamed racconta come la diversità sia ricchezza e possa aiutarci a cambiare il nostro punto di vista sull’altro.
«Ma perché indossi il velo?». È una delle domande a cui Takoua Ben Mohamed è costretta a rispondere da anni. Da quando ha scelto di indossarlo e nemmeno i suoi genitori erano del tutto d’accordo perché pensavano che fosse troppo piccola per una decisione così significativa.

Poi gliel’hanno chiesto dappertutto: a scuola, in tram, al supermercato, in strada e sopratutto (in modo più o meno diretto) ai colloqui di lavoro.
Oggi Takoua Ben Mohamed, in libreria con il suo primo libro per ragazzi «Il mio migliore amico è fascista» (Rizzoli) è una graphic journalist affermata, che proprio con il suo lavoro racconta le difficoltà quotidiane di una ragazza musulmana in Italia.
Più precisamente a Roma, dove vive da quando aveva 8 anni, arrivata qui dalla Tunisia, nel 1991, per raggiungere il padre, esiliato politico.

Quanto è fascista questo migliore amico?

«L’ho definito così anche per provocazione ma il ragazzo di cui parlo è realmente una persona importante per me, anche se diametralmente opposta. Questo mi fa credere fortemente che basta spogliarsi dai pregiudizi e ascoltare l’altro per comprenderlo ed accoglierlo. È un passo che va fatto insieme».

Quali sono i pregiudizi con cui si è scontrata più spesso?

«La protagonista è romana e quello che le viene più spesso detto dai suoi coetanei è “tornatene al tuo paese”. Io ancora oggi rispondo che sono romana, italiana, europea. Ho origini diverse ma non si tratta di identità. È quando l’altro ti guarda e ti vede al suo stesso livello che iniziano a cambiare le cose».

C’è stato un momento, dopo essere arrivata in Italia, che ha visto cambiare l’atteggiamento delle persone?

«Quando ci sono stati gli attentati alle Torri gemelle lo sguardo dei vicini di casa è cambiato da un giorno all’altro. È iniziata la diffidenza. Le maestre della scuola elementare per commemorare le vittime dell’11 settembre sceglievano sempre me. Io ero una bambina di quinta elementare e non capivo perché. Loro però lo facevano con una buona volontà ma senza accorgersi che stavano toccando una parte della mia identità, come se fossi io quella che si stava scusando per quell’attentato».

Il percorso scolastico com’è stato, da questo punto di vista?

«Ho vissuto il bullismo, la discriminazione. Ricordo che una delle professoresse, dichiaratamente femminista, ogni volta che esprimevo la mia opinione mi diceva che non avevo diritto di parlare di certe cose perché portavo “quello straccio in testa”. Purtroppo ho avuto tanti professori con cui ho vissuto esperienze negative perché non mi capivano. La mia storia con la scuola è una storia di conflitto. Fortunatamente la mia famiglia mi ha sempre aiutata e sostenuta».

La comunità musulmana era un rifugio?

«C’erano conflitti anche con loro. Non mi sentivo accettata dalla società ma neanche da una parte dei musulmani, alcuni mi criticavano per il modo di vestire ma, così come i pregiudizi, anche le critiche non le ho mai rese il centro della mia vita».

È ancora difficile indossare il velo in Italia?

«Sì, ogni volta che esco di casa con il velo so che sarò giudicata per quello che rappresento e non per quello che sono. La mia unica responsabilità è essere ciò che io sono così come mi è stato insegnato da bambina. È importante essere vista per Takoua persona e le persone capiranno che le ragazze musulmane non sono solo il velo che indossano ma molto altro. Per me il velo è qualcosa di molto intimo e personale anche se è visibile a tutti. È legato alla mia fede ma rappresenta anche l’esperienza di vita che ho vissuto. Mi ha insegnato a non cambiare mai perché l’altro te lo chiede. Come quando mi sbattevano la porta in faccia sul lavoro per il mio aspetto e ho deciso che il lavoro me lo sarei creata da sola e così è stato. Mi ha resa forte».

Così tanto che è diventata è testimonial di Look beyond prejudice, la campagna di sensibilizzazione contro l’islamofobia.

«Sì, è promossa da Fondazione L’Albero della Vita all’interno del Progetto MEET – More Equal Europe Together. Vogliamo combattere l’islamofobia che vivono soprattutto le donne musulmane, sensibilizzare le persone che sono dei potenziali islamofobi o che hanno dei pregiudizi. Ma è rivolta anche a sensibilizzare le ragazze musulmane affinché imparino a reagire alla discriminazione denunciando».

Questo è il suo primo libro per ragazzi.

«Sì, è la fascia d’età a cui tengo molto comunicare. Il libro narra di una storia abbastanza personale, è nato dall’esigenza di questi tempi, di denunciare certe esperienze di vita. La quotidianità che vivono i ragazzi musulmani. C’è una grande diversità tra i due protagonisti ma non è una scusa su cui non provare a costruire un’amicizia, conoscersi l’uno con l’altro e imparare a condividere».

*Fonte:vanityfair.it

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