Brahim Baya
Un anno dopo, la battaglia più dura non è solo sul campo, ma nel linguaggio, nella memoria e nella coscienza del mondo.
Il 7 ottobre 2023 è diventato una data spartiacque nella storia contemporanea, ma anche un simbolo manipolato.
È stato raccontato come il “giorno del male assoluto”, come l’inizio di una nuova era del terrore, come una frattura incomprensibile tra civiltà e barbarie.
Eppure, dietro la cortina di slogan e immagini selezionate, si è consumata un’altra verità, più complessa, più scomoda, e infinitamente più umana.
Un evento senza contesto è una menzogna
Nessun evento nasce nel vuoto.
Il 7 ottobre non è piovuto dal cielo, ma dal cuore di una storia lunga 76 anni: quella di un popolo privato della propria terra, costretto a vivere tra occupazione, assedio e umiliazione quotidiana.
Dal 1948 — anno della Nakba, la “catastrofe” — la Palestina è diventata un laboratorio coloniale dove si sperimenta l’impunità dell’ingiustizia.
Gaza, con i suoi due milioni di abitanti, è da quasi vent’anni una prigione a cielo aperto, dove il diritto alla vita è condizionato da un blocco totale imposto da Israele, con la complicità dell’Occidente.
Quando, il 7 ottobre, alcuni gruppi della resistenza palestinese hanno rotto l’assedio, non si è trattato di un atto di follia, ma di un evento politico, maturato in decenni di silenzio e disperazione.
Era — come ha scritto un intellettuale palestinese — “la rivolta degli schiavi contro i loro aguzzini”.
Il diritto di resistere
La resistenza palestinese, armata o civile, è stata etichettata come terrorismo da gran parte dei media e dei governi occidentali.
Eppure, il diritto internazionale riconosce ai popoli sotto occupazione il diritto di resistere con ogni mezzo (Risoluzione ONU 37/43, 1982).
La storia, d’altronde, è piena di esempi:
i partigiani italiani, i combattenti algerini, i Vietcong, l’ANC di Nelson Mandela — tutti chiamati “terroristi” dai loro oppressori.
La demonizzazione della resistenza è sempre stata lo strumento del potere per delegittimare chi lotta per la libertà.
Ma la differenza oggi è che questa narrazione è diventata globale, interiorizzata perfino da chi si dice solidale con la Palestina.
E quando anche le coscienze si colonizzano, la menzogna diventa sistema.
Le bugie che hanno fatto la guerra
Nei giorni immediatamente successivi al 7 ottobre, l’Occidente ha assistito a un’ondata di disinformazione senza precedenti.
Titoli, post e telegiornali parlavano di bambini decapitati, donne stuprate, neonati arsi vivi.
Quasi tutte queste storie sono state smentite o ridimensionate persino da fonti israeliane, ma intanto avevano già assolto il genocidio.
Nel linguaggio della guerra moderna, la menzogna è un’arma di distruzione di massa.
Non uccide direttamente, ma legittima chi uccide.
La direttiva “Hannibal” — quella che autorizza l’esercito israeliano a colpire i propri cittadini pur di non farli cadere prigionieri — spiega molte delle morti del 7 ottobre, ma di questo i media hanno scelto di non parlare.
E così, mentre Gaza bruciava, l’opinione pubblica occidentale applaudiva il carnefice credendolo la vittima.
Un prezzo altissimo, ma una coscienza nuova
La Palestina ha pagato, e continua a pagare, un prezzo altissimo.
Decine di migliaia di morti, città intere cancellate, generazioni traumatizzate.
Eppure, paradossalmente, mai come oggi la causa palestinese è tornata al centro del mondo.
Per decenni, la diplomazia internazionale aveva tentato di seppellirla sotto accordi, trattative e normalizzazioni.
Oggi, milioni di persone — dal Sud globale all’Europa, dagli Stati Uniti al Maghreb — gridano nelle piazze: “Palestina libera dal fiume al mare.”
Il 7 ottobre, nel bene e nel male, ha risvegliato una coscienza globale.
Non quella che giustifica la violenza, ma quella che rifiuta l’ipocrisia di chi parla di pace mentre finanzia l’occupazione.
La battaglia per il linguaggio
Le guerre moderne non si combattono solo con le armi, ma con le parole.
Chi controlla il linguaggio, controlla la memoria; chi controlla la memoria, controlla la verità.
E oggi, più che mai, la battaglia per la verità sulla Palestina è una battaglia per la libertà di pensare.
Raccontare il 7 ottobre significa opporsi alla cancellazione della complessità, significa restituire umanità a chi è stato ridotto a numero.
Non si tratta di scegliere “da che parte stare”, ma di scegliere se stare dalla parte dell’umano.
Oltre la propaganda, verso la coscienza
Il 7 ottobre non è la fine: è un inizio.
L’inizio di una riflessione profonda su come i media, la politica e perfino la religione vengano usati per costruire consenso all’ingiustizia.
Eppure, da quella data, si è aperta anche una crepa nella narrazione dominante.
Dentro quella crepa passa la luce della verità, di chi non accetta più il ricatto morale di un sistema che chiama “difesa” il massacro e “terrorismo” la resistenza.
Una voce dal basso
Per mesi ho raccolto domande, dubbi, riflessioni di persone che, come me, non si riconoscono nella versione ufficiale.
Da quel dialogo è nata la serie “7 Giorni, 7 Verità sul 7 Ottobre”: sette brevi episodi per ricostruire i fatti, smontare i miti e restituire una lettura morale della resistenza palestinese. (https://youtu.be/cvVvpBMXfuY)
Più di mezzo milione di visualizzazioni attraverso canali e lingue diverse mostrano che c’è fame di verità, di contesto, di coscienza.
Perché — come diceva Edward Said — “chi controlla la narrazione, controlla la giustizia.”
E oggi la verità, anche se censurata, sta tornando a respirare.
“Le opinioni espresse in questo articolo non rappresentano necessariamente la posizione editoriale ufficiale di Italia Telegraph.”