Angelica Savorgnani
Il mio piccolo taxi è color ocra. Piccoli taxi, è così che ci piace chiamarli qui. Il mio taxi, pulito, quasi nuovo, scintillante. Quanta gente si è seduta sui sedili del mio taxi, e quante altre anime si faranno trasportare ancora dal mio amato automezzo. Adoro la mia città, così caotica e viva. Adoro spostarmi su e giù per portarci la gente, la città è mia amica e mi lascia scorrere sopra le sue strade nuove e vecchie, strade d’Africa, strade così roventi d’estate e così miti d’inverno. Città che si affaccia verso il deserto e che si fa accarezzare alla sua destra dalle montagne brillanti. Città che al crepuscolo sembra riflettere di una luce ramata, la terra rossa si confonde con il cielo scarlatto del tramonto e le ombre della notte scendono, le luci artificiali si accendono e si trasforma, la città diventa un’orchestra. Sul mio taxi sto portando due donne, chiacchierano allegre ma non faccio caso ai loro discorsi, non mi piace farmi troppo gli affari degli altri. Ascolto solo se si tratta di argomenti generici: il meteo, le ultime sul re, che cosa cucinerà la moglie del mio passeggero per pranzo, cose così, insignificanti. Se capitano due che litigano, io mi concentro sulla strada e sui miei pensieri. A volte vengo interpellato da qualcuno che ha voglia di conversare, capisco all’istante se il cliente ha desiderio di essere ascoltato oppure di udire. Nel primo caso annuisco incalzando positivamente il passeggero sulla sua teoria dei fatti, con il fine di compiacerlo. Nel secondo caso spesso quella persona ha desiderio di compagnia e nel sentir parlare qualcuno trova giovamento. Le due signore scendono. Faccio per ripartire ma mi si fa davanti una ragazza, quasi rischiando d’investirla.
Sale senza fare complimenti, non faccio in tempo a dirle che io per oggi avrei finito di lavorare che mi comunica di voler andare in centro. Poi bofonchia qualcosa in francese, (dev’essere una turista), mi dice che era quasi impossibile trovare un trasporto a quell’ora, che se non fossi arrivato io, avrebbe dovuto attraversare mezza città a piedi. Proprio a me doveva capitare, penso. Poi mi consolo e mi dico che alla fine, una corsa in più non è nulla di grave anche se la stanchezza della giornata si fa sentire.
I finestrini calati fanno entrare l’aria nell’abitacolo. La guardo osservare l’esterno, attraverso lo specchietto, i suoi capelli color del grano volteggiano animati. Le luci dei lampioni di riflettono sui suoi occhi, sparendo e ricomparendo ritmicamente. Da dove vieni? Come ti chiami?
Si accorge di essere osservata e mi sorride. Non me lo aspettavo, scosto rapidamente lo sguardo verso la strada, imbarazzato come non mai.
Arriviamo, mi porge una banconota da cento, rifiuto dicendole che sono fuori servizio. Mi guarda perplessa, mi sorride di nuovo: merci, mi dice. Lei esce dal taxi, il suo profumo rimane.
Non riparto, sto li a contemplare i minuti appena trascorsi.
Non so quale istinto, quale forza nascosta, mi suggerisce di seguirla.
Parcheggio poco più in là. È talmente tardi che la piazza è praticamente sgombra. La vedo addentrarsi tra i souk sbarrati, con il suo vestito rosso che svolazza. Man mano che ci si addentra nel labirinto della Medina le luci si fanno sempre più fioche, gli spazi sempre più angusti. Quasi credo di averla perduta quando ad un tratto sento delle voci e dei lamenti accompagnati da singhiozzi. Trovo un pesano, vicini a lei, inevitabilmente intento ad importunarla.
Non ho tempo di pensare, la mia lingua parte da sola: «cosa fai?»
Si gira, mi squadra e si mette a ridere.
Mi ero dimenticato di essere alquanto mingherlino.
«Potrebbe essere tua sorella, non ti vergogni?», manco l’avessi detto, si scaglia su di me. Riesco ad evitarlo inizialmente, ma poi mi da un pugno nello stomaco. Ricambio con molta fatica, piazzando un destro sulla faccia del malcapitato. Intanto lei che si era fatta piccola in un angolo, ritrova il coraggio di alzarsi e trovando a portata di mano un sasso bello grosso lo scaglia contro l’aggressore e lo ferisce alla testa. Quello sanguina parecchio ed è visibilmente stordito. Non si aspettava una reazione così efficace. Senza attendere oltre sul da farsi, la prendo per mano e la tiro a me, fuggendo tra i vicoli.
Ci fermiamo in un giardino, dopo aver attraversato il viale pressoché deserto. Abbiamo corso parecchio e ansimiamo affaticati. Lei mi abbraccia e incomincio a sentirmi a disagio. Non avevo mai abbracciato nessuna donna, che non fosse mia sorella o mia madre. Nel mio immaginario non avevo fatto altro che attendere il momento giusto, in cui avrei chiesto a mia madre di trovarmi una brava moglie, così da sistemarmi, e non avrei lasciato trascorrere ancora parecchio tempo. D’altronde di anni ne avevo già venticinque e per certi versi ero già in ritardo. Quella francese attaccata al mio corpo mi stava scombussolando la mente. Inizialmente lei sola mi cinge la vita, ma poco dopo le mie braccia, tese verso l’esterno, incapaci di decidere sul da farsi, si sciolgono avvolgendo quel corpo minuto, toccando il tessuto umido di sudore che la avvolge. Le accarezzo la testa e provo a dirle, con il mio grezzo francese, che va tutto bene. Poi ci separiamo, ha gli occhi carichi di lacrime. La invito a sedersi poco più in là, su una panchina. Si asciuga il viso con il lembo del vestito e una cascata di parole ricade su di me violentemente. Non riesco a farla smettere. Comprendo solamente che è preoccupata per quello che ha fatto, ferendo quell’uomo. Ha paura delle ripercussioni che possa avere su di lei ciò che è appena accaduto. Che strano, penso, questa donna mette davanti a se il bene di uno sconosciuto che la stava aggredendo piuttosto che sentirsi violentata, quantomeno moralmente. Mi siedo affianco a lei, mi viene naturalmente da prenderle la mano, quasi non credo a quello che sto facendo. Le dico che il suo è stato un gesto difensivo, che quello se l’è cercata e che di certo non proverà a sporgere denuncia dato che in quella situazione era stato lui a metterla. La guardo, sembra sollevata. Ha degli occhi verdi scintillanti. Se non fossi arrivato tu chissà cosa mi sarebbe capitato, mi dice. Le sorrido e la invito ad accompagnarla in albergo al sicuro.
Ripercorrendo la strada per la quale eravamo giunti non incontriamo nessuno. Ne siamo sollevati entrambi.
All’ingresso della pensione ancora ringraziamenti. Ho l’ardire di chiederle come si chiama.
Je m’appelle Nathalie, mi dice.
Et toi?, mi chiede.
Nadir, le sorrido un po’ impacciato.
Nadir, ripete lei, con quel sorriso che mi sta uccidendo lo stomaco.
Au revoir, le dico, alzando timidamente le dita, e sparisce dentro l’albergo.
Poi mi sento chiamare: «Nadir! Nadir!»
Mi volto e mi avvicino nuovamente all’ingresso. Mi viene incontro sventolando una biro, mi prende la mano e mi scrive dei numeri sul palmo. Mi sorride e se ne va di nuovo. Guardo la pelle della mia mano, osservo quei numeri blu che stagliano sulle mie mani scure da mezzo berbero che sono. È proprio vero che quando il destino ha progetti in serbo per te, non c’è altro da fare, che farsi trascinare dalla corrente.
Questa notte non ho dormito. E chi sarebbe riuscito a dormire dopo quello che mi è successo? Continuo a guardarmi la mano, l’inchiostro è sbiadito a causa del sudore, ma il numero me lo sono annotato subito sul telefono, mentre ripercorrevo a ritroso la strada verso il taxi. Ho paura a comporre quel numero. Che cosa troverò? Che cosa mi aspetta? Ma alla fine dei conti, che male potrò mai fare ad incontrare una donna amichevolmente? Alla fine mi convinco, cerco il dizionario di francese del liceo, e mi metto a ripassare.
Mi presento davanti all’albergo con la migliore camicia in mio possesso, mi guardo riflesso sulla vetrata dell’ingresso e quasi mi pento di non essermi vestito in modo più informale. Uscendo e vedendomi mi sorride felice.
Salam aleikum, mi dice allegra,
Aleikum salam, le rispondo contento, dimenticandomi delle pene che poco prima il mio outfit mi causavano.
Attraversiamo i souk, ricolmi di scarpe e tessuti colorati, di pantofole riccamente ricamate, di tazze, teiere, vasi, vasetti di ogni forma e colore. I suoni della piazza vicina ci accompagnano, i profumi speziati ci accarezzano.
La porto in cima ad un locale, sopra i souk, su una terrazza. Dall’alto spuntano i minareti della moschee vicine e le innumerevoli parabole.
Inizia raccontandomi che l’altra sera era in un locale con una sua amica, che appartatasi con un ragazzo l’aveva persa di vista. Aveva deciso dunque di ritirarsi in albergo da sola sperandola in buone mani.
Mi racconta che questo viaggio a Marrakech è un regalo da parte di suo padre, premio per la sua recente laurea in medicina. Sua madre non voleva, un paese sconosciuto e lontano, da sola, ma poi sapendo che la accompagnava una sua coetanea si è lasciata convincere. I suoi sono separati e non vanno molto d’accordo. Che vite completamente all’antitesi, penso. La mia famiglia, di modeste origini, è sempre stata unita. Finito il liceo mi sono subito impegnato a lavorare per aiutare mio padre al mantenimento della famiglia, prima in una bottega e poi, avendo risparmiato qualcosa, acquistando e conducendo il mio bel piccolo taxi.
Nathalie mi chiede di raccontarmi un po’ di me. Le parlo della mia sorellina, del mio severo padre e della mia cara mamma, che è sempre preoccupata per me. Le dico che ha sempre timore che io lavori troppo e che mangi troppo poco. Ride. Poi si fa seria, un velo di tristezza compare sul suo viso arrosato dal sole marocchino. Vorrei anch’io una famiglia così, mi confessa. Cerco di confortarla, dicendole che se si impegnerà, sarà lei a creare la famiglia che vorrà. Ci pensa un po’ su e mi sorride, ancora, e vorrei non smettesse mai.
Decidiamo poi di spostarci, camminiamo, chiacchieriamo. Tra i due forse quella che ha più cose da raccontare e lei. Mi rendo conto che in effetti la mia giovane vita è girata fin ora tutta intorno alla famiglia e al lavoro, mentre la sua, così ricca di esperienze affascinanti, ha però avuto un grosso prezzo da pagare per essere vissuta: quello di una famiglia spezzata, che le crea sofferenza, da quello che ho compreso.
Vorrei che il tempo insieme a lei non terminasse mai, ma come tutte le cose belle, queste hanno un inizio, e ahimè, un’amara fine. A spezzare l’incantesimo ci pensa mio padre. Squilla il telefono e chiede di me. Probabilmente intuisce qualcosa perché il suo tono cambia improvvisamente quando inizio a parlare. Lo saluto, dicendogli che sarei rincasato presto. Guardo il telefono dopo aver chiuso la chiamata, poi rivolgo il mio viso verso Nathalie che deve aver capito e mi osserva serenamente. La accompagno in albergo e la saluto sperando di vederla ancora.
Il giorno seguente, mentre sto conducendo un ragazzo dalla Medina a un quartiere ai bordi della città, suona il telefono: è Nathalie. Mi chiede di vederci, le rispondo dicendolo che il tempo di concludere una corsa, sarò da lei.
All’interno dei souk, svoltando l’angolo che porta all’albergo, Nathalie è già lì sulla stradina, ad aspettarmi. C’è anche un’altra ragazza vicino a lei, che intuisco essere la sua amica. Mi blocco di colpo però, apprendendo di un dettaglio. Nathalie regge tra le mani qualcosa a cui non avevo pensato prima e che non avrei voluto mai trovare: la maniglia di un trolley.
Mi sorride, questa volta quel bel sorriso però, ha un sapore malinconico. Mi avvicino. Andiamo? Mi chiede. Annuisco abbassando e alzando la testa, perché la lama che mi si è infilata in gola, mi impedisce di parlare.
Giunti al parcheggio dell’aeroporto, Nathalie mi porge la solita banconota da cento. La prendo, poi la piego in quattro e mettendola nel palmo della sua mano, le chiudo le dita a pugno. Non sono in servizio, le dico e le faccio l’occhiolino.
Merci, ancora.
Scendiamo e le accompagno all’entrata delle partenze. La sua amica la precede entrando nell’edificio.
Lei invece si ferma, si volta verso di me. Si toglie gli occhiali da sole e mi si palesano davanti i suoi bei occhi smeraldo, velati di lacrime.
Nadir e Natalie, mi dice. Forse eravamo destinati a incontraci, confessa.
Non trovo le parole giuste da dire. Forse non esistono le parole da dire in certi momenti. Si avvicina e mi bacia sulla guancia.
Adieu Nadir, e si avvia verso le porte di vetro dell’ingresso, lasciandomi un po’ del suo profumo. Spero si volti, che ritorni da me, pronunciando ancora il mio nome, con quell’accento così buffo e così adorabile, come quella sera che la conobbi.
Questo però non accade.
Adieu Nathalie, sospiro, e le mie parole si sciolgono nell’aria calda della mia città. Ritorno al mio piccolo taxi con la mia tunica da arabo addosso, ed esco dall’aeroporto.
Ritorno a scorrere, ancora, ma mai più come prima, sull’asfalto rovente di Marrakech.